“Io ricordo ciò che mi disse Ninnì Cassarà allorché ci stavamo recando assieme sul luogo dove era stato ucciso il dottor Montana, alla fine del luglio del 1985, credo. Mi disse: ‘Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano'”.
Quando si ascolta un’intervista di Paolo Borsellino, la prima cosa che si evince è la concretezza dei ragionamenti. Una voce rotonda e genuina, note di pianoforte di un inno siciliano alla libertà e all’indipendenza.
Una voce lenta ma chiara, occhi penetranti che superano le paure, rischiarando l’interlocutore con dignità e impegno civile.
Su youtube ci sono tante interviste e su internet possiamo vedere moltissime foto del magistrato ucciso nella strage di via D’amelio, insieme agli agenti di scorta il 19 luglio del 1992.
Immagini di un uomo reso mito dalla storia, ma che spesso è soltanto relegato sull’altare delle commemorazioni, come simulacro di coraggiosa vittima di ingiustizia, un’immagine talvolta sfruttata, venduta al miglior acquirente da una consistente fetta di finta ‘antimafia’ delle apparenze. Video, foto, registrazioni, troppo poco. Ancora troppo poco.
Paolo Borsellino andrebbe interiorizzato, come un concetto, come un dogma laico con cui costruire la propria identità, andrebbe iniettato nelle vene come chemioterapico, capace di bruciare le cellule con cui si metastatizza il cancro della crudeltà umana e dell’arroganza.
In questa febbre di ignoranza che brucia la gola della democrazia, Paolo Borsellino andrebbe deglutito come un antibiotico per l’anima, un farmaco da somministrare con cura e rispetto ai tantissimi ragazzi che si affacciano alla vita, crescendo in una nazione che oggi, forse più che in altri momenti storici, sta dimenticando cosa significa prodigarsi per il benessere collettivo.
Questo paese ha avuto chi davvero è riuscito a cambiare le cose in meglio, dovremmo inalare questa certezza per riempirci i polmoni di aria pulita, allontanandoci dal respiro di quei fumi tossici delle banalità e delle effimere parole vuote decantate da pseudo intellettuali.
È, infatti, con il sacrificio di Borsellino che oggi possiamo calpestare le coppole dei mafiosi, è grazie al suo impegno che oggi conosciamo il Dna del corpo della mafia, un corpo che negli anni ha rubato la nostra vitalità, un corpo con un volto mostruoso, lacerato negli anni dalle lupare dei suoi stessi consanguinei.
Grazie a quel giudice abbiamo avuto la forza di pretendere leggi più severe, con pene dure per chi opera nel crimine organizzato, è grazie al suo impegno che ‘cosa loro’ divenne ‘cosa di tutti’, favorendo negli anni il processo di smascheramento di troppi intrecci tra politica e mafia con arresti di illustri sterchi siciliani e del resto d’Italia.
Paolo Borsellino è stato uno di quegli uomini che ha consentito a noi tutti di godere della modernità.
Questo è quanto è nostro dovere spiegare ai ragazzi di oggi e cioè che qualcuno ha avuto le palle di dire “Non sono né un eroe né un kamikaze, ma una persona come tante altre. Temo la fine perché la vedo come una cosa misteriosa, non so quello che succederà nell’aldilà. Ma l’importante è che sia il coraggio a prendere il sopravvento… Se non fosse per il dolore di lasciare la mia famiglia, potrei anche morire sereno”.
Se è vero che oggi questo paese ha a capo ministeri dell’odio, se è vero che questa realtà, con questo digiuno dell’etica politica, con questa opprimente assenza di punti di riferimento, di metodi, di dottrine, ci sta insegnando a nascondere la nostra preziosa individualità, è vero anche che abbiamo ancora il prezioso farmaco di Paolo Borsellino, una medicina preziosa che può davvero insegnare ai ragazzi ad essere luci nel buio, partecipi protagonisti di una collettività che ha inevitabilmente bisogno del ‘noi’ per esistere e per crescere.
Quando riscontriamo nelle fecce umane l’assenza di garbo, gentilezza, rispettabilità, dovremmo ricordaci della classe di Paolo Borsellino ed emularlo, raccontando ai nostri figli la sua storia, valida narrazione alternativa al vuoto degli episodi contemporanei.
Quando abbiamo paura dell’altro, dovremmo ricordarci di Borsellino, quando non abbiamo il coraggio di denunciare, dovremmo ricordarci di Borsellino, quando smettiamo di credere nella forza di volontà, dovremmo ricordarci di Borsellino, quando ci vergogniamo di questo Paese, dovremmo piuttosto ricordarci di quanto siamo fieri di aver avuto un esempio come Paolo Borsellino.
Il magistrato ucciso dalle bombe dell’infamia è ciò che più rappresenta l’integrità, è la dimostrazione che si combatte la prepotenza umana con la lettura, con lo studio, con la condivisione, con l’edificazione di modelli positivi, con l’etica della responsabilità, con la costruzione di culture nuove.
Egli stesso chiarì che “La lotta alla mafia dev’essere innanzitutto un movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.
Noi dobbiamo abituarci al profumo della bellezza, liberandoci con tutte le energie possibili dalle fetide sabbie mobili del vittimismo e delle brutture dell’omertà, e tocca ai ragazzi essere i più ribelli, i più sovversivi rispetto a chi pretende di imporci come amare e chi rispettare in questa terra.
Borsellino fu l’uomo che visse cinquantasette giorni sapendo con certezza che sarebbe morto, e nonostante ciò, non smise di lavorare impegnandosi per dimostrare la verità. Sappiamo oggi che il magistrato intuì benissimo che dopo la morte di Giovanni Falcone sarebbe stato ucciso anche lui.
“Non ho tempo da perdere, devo lavorare, devo lavorare… E’ una corsa contro il tempo, per arrivare alla verità prima di essere fermato”.
Immaginate ora cosa si possa provare nel sentirsi abbandonati da uno Stato colluso “Mi uccideranno ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”, immaginate come ci si senta nel sapere che da lì a pochi giorni sarebbe stato zittito dalla vigliaccheria umana.
Immaginate di vivere quelle ore, quei minuti, quei tanti secondi, temendo per l’incolumità dei propri figli, lottando contro il tempo per proseguire nel lavoro iniziato con l’amico Giovanni.
Cinquantasette albe insonni dove l’uomo solo combatteva contro i mulini al vento di un governo indifferente e sleale. Nel pochissimo tempo libero che gli rimaneva, in quegli ultimi giorni, Borsellino continuò a incontrare i giovani perché aveva intuito, già ormai da molti anni, che per contrastare la cultura mafiosa bisogna promuovere dibattiti nelle scuole, parlare nelle piazze e in tutti gli spazi di aggregazione dei ragazzi.
“Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo” questa frase è il 19 luglio, questa frase è tutti i restanti giorni dell’anno, questa frase è ogni nazionalità unita, è impegno, e mille colori di pelle, è ogni regione d’Italia, è sovranità popolare ed emancipazione, questa frase è la nostra speranza, questa frase è il senso del dovere di ognuno di noi, è il passato, è il futuro, è ciò che ci resta di Paolo Borsellino.
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Amedeo Zeni