Non c’è pace per il regista Matteo Garrone. Neppure il tempo di godersi il “Gran Premio” della giuria del sessantacinquesimo Festival di Cannes presieduto da Nanni Moretti e assegnato al suo ultimo film “Reality” che si è dovuto precipitare in Procura a Napoli per un interrogatorio.
Da un paio di mesi il regista è entrato nel mirino di diversi collaboratori di giustizia – alcuni sono stati anche suoi attori – per il film “Gomorra”.
C’è chi l’accusa di aver versato una tangente di 20 mila euro per stare tranquillo e finire di girare il film tratto dal best seller dello scrittore Roberto Saviano. C’è chi l’accusa di aver accettato l’imposizione di una scorta armata dei Casalesi quando il set delle riprese si è spostato nella zona di Casal di Principe, c’è chi ricorda di diversi incontri tra il regista e alcuni boss.
Garrone non vive su Marte. Per realizzare il “suo” neo verismo cinematografico è disposto a tutto anche ad arruolare boss, affiliati, capo piazza e pusher tra i suoi interpreti. Così è stato per Gomorra. Durante il faccia a faccia con i magistrati Garrone qualcosa avrebbe ammesso. Laddove le contestazioni si sono fatte ficcanti e precise l’artista ha sbottato dicendo: “Quando scrivo e realizzo un film incontro tantissime persone di ogni ceto sociale e non sono tenuto a conoscerne di ciascuna frequentazioni, appartenenze e casellari giudiziari”. Per poi tagliare la testa al toro e affermare: “Sono un regista e mi occupo del lato artistico. I produttori e chi finanzia il mio lavoro si interessa del lato economico”.
Girare il film “Gomorra” non è stato semplice per Garrone. C’è un episodio singolare. All’inizio della lavorazione, il regista era intento a ricostruire location e scegliere gli esterni. Alcuni ciak furono realizzati nel quartiere di Secondigliano. Lo staff tecnico e l’entourage del regista facevano attenzione a non far emergere che il film in lavorazione fosse ispirato al libro “Gomorra”. Si parlava, infatti, genericamente di un documentario su Napoli. Un astuto espediente per evitare problemi e attirarsi le attenzioni della criminalità.
Accade qualcosa. Alcune donne della Masseria Cardone, agglomerato di dodici edifici a Secondigliano, e roccaforte della potente famiglia-clan Licciardi, accolgono la troupe e trasformano un paio di stanze delle loro abitazioni – in sala trucco e spogliatoio. Il clima è sereno. I giorni trascorrono tranquilli. I sopralluoghi procedono bene come del resto le riprese. Accade che qualcuno però della squadra del regista svela che, in effetti, non si tratta di un documentario ma di un film ispirato al libro Gomorra.
L’atmosfera si fa pesante. Le donne così gentili e disponibili di botto cambiano atteggiamento. Una chiamata via telefonino e si materializzano in pochi minuti quattro moto di grossa cilindrata. La masseria Cardone viene circondata. Tocca a Matteo Garrone chiedere una spiegazioni, tentare una mediazione. Ma non ci sono margini. Con le pistole messe bene in vista i guaglioni ordinano lo sfratto della troupe. Lo stesso Garrone è affrontato a muso duro ed etichettato come un infame per aver mentito e avvisato di lasciare Secondigliano altrimenti sarebbe finito male.
Arnaldo Capezzuto